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Prigionieri dello spettacolo

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

CRONACHE DI UN RISCATTO 

Nel loro tempo sono stati istanti, porteremo quelle scintille come trascinate dal vento della storia ad accendere i fuochi delle rivoluzioni, gli istanti diventeranno eternità e vivranno della potenza della costruzione di nuove pagine

Alcuni eventi storici rappresentano una diga nella nostra memoria, separano la nostra vita collettiva in un prima rispetto a un dopo, si depositano come ricordi e osservati da lontano ci spiegano molto meglio il futuro che ci attende. Sono attimi spettacolari che, fissati nella mente, sovrastano qualsiasi altra memoria prossima a quel momento. Così è stato per chiunque ha assistito alla caduta delle Torri Gemelle o al rapimento di Aldo Moro: la prima sensazione è quella di esistere, di essere compresi in un tornante della storia che ha reso il dopo diverso dal prima. È infatti la consapevolezza di essere parte di un presente che si sta creando come nuovo che spinge le persone ad essere protagoniste dei cambiamenti; così successe in Italia nel 1967.
Due episodi segnarono un’Italia sbiadita dalla retorica del miracolo economico e sociale del dopoguerra: la morte per suicidio di Luigi Tenco a Sanremo e il caso del Piano Solo, dove si scoprì che nel 1964 alcune frange delle forze militari avrebbero tentato un colpo di Stato per frenare lo spostamento a sinistra del Paese. I due eventi catapultarono soprattutto i giovani in un presente da cui non ci si poteva sottrarre: il Piano Solo era la dimostrazione che il cambiamento non poteva essere delegato a delle istituzioni ancora conniventi con un passato mai sopito, mentre il gesto di Tenco rispecchiò il disincanto di una generazione disadattata al mito del futuro. Questi due episodi furono la preparazione dei moti del ‘68’, la prima rivolta verso il capitalismo democratico, inteso come quel sistema in cui la produzione basata sui consumi avrebbe prodotto crescita economica e democrazie stabili. Ma i rischi e i pericoli di una società plasmata su quel modello di vita erano già stati predetti dal filosofo francese Guy Debord ne “La società dello spettacolo”. Proprio nel 1967 il libro viene pubblicato nel disinteresse della classe intellettuale dell’epoca, disprezzato dai maggiori filosofi francesi e invece saccheggiato dai futuri partecipanti al Maggio francese del ‘68’. L’autore non fa nulla per farsi apprezzare, polemizza con Sartre e Heidegger, non partecipa a dibattiti e presentazioni e nella sua intera vita non si fa intervistare, ancora oggi le foto che lo ritraggono si possono contare sulle dita di una mano. La sua scrittura segue perfettamente il suo carattere: il volumetto si compone di 221 tesi esposte tramite uno stile aforistico, in cui il lettore sente il peso di ogni singola parola e come un giocatore di puzzle deve comporre il significato pezzo per pezzo per arrivare al senso della tesi finale. L’opera spazia su molti temi, dal senso della Storia, al concetto di modernità fino a un’analisi economica della società, in cui ognuno di questi temi è leggibile solo attraverso la dimensione dello spettacolo, che fa ingresso nella filosofia per la prima volta proprio con Debord.
Nella foto - Laboratorio Sociale AlessandriaGià dalla tesi numero 1 Debord con una certa spavalderia, lancia la provocazione che suona come una sirena d’allarme per tutti gli intellettuali dell’epoca: “Tutta la vita delle società in cui regnano le moderne condizioni di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. In Italia come in Francia quelli sono gli anni della grande produzione e dello sviluppo industriale, è una produzione che in realtà rispecchia i bisogni di una società in espansione e in ristrutturazione: gli elettrodomestici trasformano le case, i mezzi di trasporto cambiano le città e la pubblicità si rivolge alle nuove masse. Ma la produzione è come un fiume in piena e la merce – l’oggetto dei consumi – diventa grazie alla pubblicità e ai desideri che essa instilla nelle persone non una realtà di cui si ha bisogno, ma un’immagine, e quindi un simbolo, che non ha un valore d’uso ma soltanto un valore d’apparenza. La merce, secondo Debord, non viene consumata né scambiata ma la merce esiste per la sua capacità simbolica. L’individuo quindi non si avvicina alla merce per possederla ma per goderne dell’immagine. Debord riesce dove molti pubblicitari dell’epoca fallirono: capire la simbologia degli oggetti per scindere la realtà dalla sua immagine e riprodurre solo quest’ultima.
Ma Debord non si ferma a interpretare i rapporti di produzione attraverso la lente della forza delle immagini, ma l’intera società che si sviluppa attraverso un capitalismo che produce emozioni, ove appunto si vendono rappresentazioni, immagini, simboli grazie alla pubblicità che funziona da design emotivo del consumo. Questo meccanismo porta l’uomo ad ottenere prestigio attraverso le rappresentazioni di sé e della sua merce (pensiamo agli “influencer”), così facendo egli produce l’immagine di sé stesso, una sua proiezione simbolica. Il passo ulteriore di quest’interpretazione della vita è nel cambiamento di paradigma sull’origine del senso filosofico: non è più tra essere e avere che si interroga l’individuo, ma tra essere o apparire. Nel momento in cui la vita si trasforma in apparenza dell’esistenza, quell’apparenza che è rappresentazione è in realtà una proiezione della mia esistenza che non è reale. Il partecipare ad esistere non è nella misura fisica delle mie azioni ma nella misura spettacolare delle mie immagini. Le gallerie fotografiche dei nostri profili social o i video di Instagram testimoniano questo progressiva assenza della vita fisica per riempire una vita apparente. La società dello spettacolo descritta da Debord non è meramente la vittoria delle immagini sui veri significati delle cose, ma è un intero ribaltamento di prospettiva nella vita di ognuno: lo spettacolo è un nuovo rapporto sociale in cui le nostre interazioni sono mediate da rappresentazioni. Lo spettacolo è la coscienza del nostro tempo, è la modalità con cui ci rapportiamo agli altri, è il parametro su cui ci giudichiamo e ci confrontiamo. Lo spettacolo è quindi una produzione circolare di convinzioni e non di beni: se indosso un determinato paio di jeans sarò identificabile in un certo modo, se acquisto una determinata automobile avrò una determinata considerazione, con questi mezzi psicologici lo spettacolo rafforza i nostri convincimenti. In realtà ci separa dagli altri facendoci sentire parte di un mondo che esiste solo attraverso delle nostre rappresentazioni fasulle.
Le intuizioni di Debord furono molto precoci rispetto al futuro sviluppo dei media e delle realtà virtuali, egli riuscì a costruire le sue teorie osservando la società degli anni ‘60’, ma i suoi studi si rivelano ancora più attuali nell’era dei social network. La società dello spettacolo, afferma Debord, separa l’uomo dalla vita vissuta facendogli credere di essere al centro della sua rappresentazione. Così egli si identificherà non attraverso i suoi pensieri o i suoi interessi, ma attraverso la proiezione che hanno gli altri di sé, convinto di essere al centro dello spettacolo. L’uomo crede così di essere protagonista di uno spettacolo, come tramite Facebook o Instagram, ma in realtà è egli stesso lo spettacolo, in cui in una vetrina virtuale crea eventi, sponsorizza stili di vita e narra la propria esistenza rappresentata.
Attraverso le vetrine virtuali mi propongo in un’immagine, quindi mi specchio attraverso un mezzo che mi riproduce: da soggetto fisico mi comporto in un oggetto. La convinzione di essere protagonisti nella realtà, quando invece siamo produttori di immagini sui social network, provoca quella che Debord chiama vita separata, in cui diventati degli oggetti di illusione contempliamo ciò che vorremmo essere e trasformiamo il nostro tempo in una narrazione della nostra esistenza passiva, proprio perché solo rappresentata. Più la realtà si trasforma in immagini più l’uomo contempla e non agisce, così siamo tutti pronti a modificare le nostre foto del profilo per una giusta causa ma non siamo pronti a far nulla di concreto nella vita disconnessa. La società spettacolare, preconizzò Debord, è la società dell’insoddisfazione, ove pensiamo di essere appagati dal nostro protagonismo virtuale, ma in realtà siamo gli oggetti di una “sopravvivenza aumentata”, in cui esistiamo perché siamo nelle immagini di qualcun altro e non perché siamo. E’ la potenza di un’immagine che appaga la nostra giornata e ci induce a non agire, per poter continuare a contemplare altre immagini, proprio come i movimenti delle dita sulle schermate dei nostri telefoni e i nostri capi protesi all’osservazione del mondo virtuale.
L’eredità culturale di Guy Debord nonostante abbia scritto una sola opera è immensa, ma ancora più significativo è il suo messaggio esistenziale, di non voler partecipare a questo declino delle vere emozioni e voler continuare ad esistere senza rappresentazioni. Guy Debord così come Luigi Tenco si sentiva un disadattato e il futuro, sempre più simile alle sue tesi filosofiche, lo portarono prima ad allontanarsi da Parigi e poi a decidere di porre fine alla sua vita all’età di sessantadue anni. Scriverà su un biglietto di essere partito senza lasciare l’indirizzo, come a dire che per quanto leggiamo la sua opera non potremmo mai capirlo. E con la consapevolezza di aver ragione, non ha voluto che lo spettacolo si appropriasse della sua vita e prima del tempo ha avvisato anche noi.

Autore 

Andrea Sofia