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Di nuovo e con poco. Appunti per un ecologismo militante

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

La lotta per la difesa ultima del pianeta si può considerare come la più grande sfida politica dei nostri tempi. La catastrofe climatica, in fondo, non è che la resa dei conti, l’atto finale di un conflitto, quello tra capitale e natura (e non tra cultura e natura, come si è spesso affermato) – da sempre obliato, eppure mai cessato –, che non può che concludersi con la dissoluzione dell’uno o dell’altra. Oggi, non si tratta (non più) di schierarsi in posizione difensiva, ma di passare al contrattacco, di individuare e infastidire, ostacolare e sabotare i diretti responsabili dell’avvelenamento della Terra e dello stravolgimento degli equilibri naturali, che hanno nomi e marchi. Se è vero, infatti, che una possibile “rivoluzione ecologica” non può che partire dallo stile di vita individuale e da un impegno quotidiano (che va dall’impiego oculato dell’energia, dell’acqua e del calore domestici alla mobilità sostenibile, dalla riduzione e dal corretto smaltimento dei rifiuti alle pratiche di riuso, riciclo e riparazione), è altrettanto vero che la totalità di tali sforzi risulterebbe del tutto vana senza lo smantellamento dell’attuale apparato estrattivo, produttivo, logistico e consumistico. Se, da un lato, è innegabile che ognuno di noi giochi un ruolo attivo nell’attuale crisi ecologica, dall’altro, appare del tutto insensato, e fin troppo comodo, affermare che ne siamo tutti egualmente responsabili; come se un bambino di Agbogbloshie – che rovista tra le montagne di e-waste donati dall’Europa* nel tentativo di recuperare qualche componente elettronico da rivendere – condividesse la stessa responsabilità morale del presidente di una società petrolifera o del colosso dell’hi-tech che pur di garantirsi profitti costanti pianifica elettronicamente l’obsolescenza dei propri dispositivi, generando un numero indefinito di scorie tossiche e difficilmente smaltibili.
I dati, sempre più allarmanti, lasciano ben poco spazio a virtuosismi ermeneutici: il tempo è esaurito. I lenti processi di sensibilizzazione, il rinnovamento generazionale, le petizioni e i flash-mob sono lussi che non ci si può più permettere. La cecità dei più di fronte a una catastrofe non più imminente, ma ormai in atto e l’atteggiamento dei soliti-pochi, la cui incolmabile avidità non sarà mai dissuasa dal perseguire il profitto fino alla fine, ci impongono l’urgenza dell’azione, di un’azione immediata, diretta. Poiché il dominio dell’uomo sulla natura prepara e supporta quello dell’uomo sull’uomo, la sua abolizione risulta centrale nella lotta contro ogni forma di oppressione ed è la sola ed ultima chance di invertire una rotta che conduce dritta al biocidio universale. Se è vero, come affermava Günther Anders, che il dominio tecnico abolisce il politico, l’unica azione politica possibile è l’abolizione del dominio tecnico. Ciò implica scardinare, una volta per tutte, l’egemonia di una razionalità tecnico-strumentale che, mediante lo sfruttamento sconsiderato e amorale del pianeta, ha finito per ipotecarne la stessa sopravvivenza. Ma anche contrastare energicamente quanti – inclusi molti pensatori di ispirazione marxista o anarco-sindacalista – continuano ad accogliere ed alimentare l’illusione che dal progresso tecno-scientifico in quanto tale possano scaturire possibilità emancipatorie e persino opportunità rivoluzionarie. Al contrario, come aveva ben compreso Walter Benjamin, ciò che noi chiamiamo progresso non è altro che un cumulo di rovine, un ammasso di macerie, e può darsi che le rivoluzioni non siano le ‘locomotive del progresso’, come affermava Marx; «forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno»**.

 

*Ogni anno ad Agbogbloshie, suburbio di Accra (capitale del Ghana), vengono scaricati milioni di tonnellate di «e-waste»: scarti di apparecchi elettronici spediti dai paesi occidentali, che trasformano il paesaggio, un tempo meraviglioso, in un abnorme cimitero di personal computer, schermi al plasma, smart-phones, videogiochi ed ogni sorta di dispositivo elettrico. Lo smaltimento di questo tipo di prodotti – contenenti metalli pesanti estremamente velenosi, come arsenico, antimonio, berillio e cadmio – nei paesi produttori è piuttosto costoso ed è regolamentato dalle leggi in materia, e poiché la convenzione internazionale di Basilea del 1992 sancisce il divieto di esportazione dei rifiuti, questi vengono «donati» ai paesi del terzo mondo in qualità di merce “usata”, sebbene, salvo rare eccezioni, si tratti di materiale non funzionante. I ragazzini del luogo, non curanti dei micidiali miasmi e dei fumi tossici generati dai roghi di tali apparecchi, scorrazzano tra le reliquie e gli scarti dei loro coetanei occidentali – ai quali quel gadget tecnologico non garantiva più un sufficiente «high-tech appeal» – ne ricavano, a mani nude, i componenti riutilizzabili, li raccolgono e li rivendono per pochi spiccioli, per garantirsi il minimo sostentamento quotidiano.

**W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995.

Autore

Alessandro Carrieri

ph. EJAtlas.it