
Mediterranea è la prima nave che entra nelle acque del Mediterraneo centrale battendo bandiera italiana e rivendicando la volontà di compiere salvataggi in mare. È una nave che si pone come obiettivo quello che, se non fosse per i tempi in cui ci troviamo, si potrebbe definire semplice: soccorrere chi è in difficoltà in mare e portarlo in un porto sicuro.
Le politiche dell’Italia e degli stati europei nei confronti dei migranti, gli ostacoli che queste persone devono affrontare per arrivare in primis nel nostro paese e, una volta arrivati, per potersi muovere, per poter avere un lavoro, una casa, una famiglia, nello stato in cui scelgono di vivere, sono diritti che oggi risultano completamente vietati. La missione di Mediterranea cerca di farli valere.
“È evidente che, sempre di più, le migrazioni sono il terreno su cui si raccoglie il consenso da parte delle forze sovraniste e populiste – ha spiegato Neva nel corso dell’incontro di presentazione del progetto di venerdì 16 novembre alla Casa delle Donne di Alessandria – ma non è solo appannaggio di queste formazioni. Le peggiori riforme in materia di immigrazione le abbiamo viste fare dalle democrazie progressiste europee, basti pensare all’accordo con la Turchia o alla politica degli hot-spot, o al Pd con la riforma di Minniti. È, però, evidente che siamo di fronte a una svolta, a un momento in cui tutto ciò precipita verso un vero e proprio sdoganamento del razzismo. Il decreto sicurezza con tutto il suo portato di alienazione dei diritti, di distruzione dei principi che hanno fondato la storia delle democrazie europee dopo la seconda guerra mondiale, ci sta facendo vedere che si sta aprendo una nuova pagina, siamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo. È proprio in questo contesto che noi, come associazione Ya Basta abbiamo deciso quest’estate di prendere parola e unire le voci del rifiuto di questo piano di narrazione delle migrazioni procurandoci, insieme ad altre realtà, una nave. Per costruire un argine al razzismo partendo dal confine, da quanto stava accadendo nel Mediterraneo centrale. Uno di quei confini che come tutti gli altri è stato oggetto di enormi strumentalizzazioni e dove si sono giocate partite molto importanti, in particolare dall’estate del 2017 a quella del 2018, in cui si è fatto un passo in avanti in quella escalation xenofoba e razzista che ha dichiarato guerra alle Ong e di fatto ha sancito il crimine della solidarietà”.
E in quello spazio, privato dagli unici attori indipendenti con una battaglia di due anni fatta di sequestri, di accuse che non hanno mai portato a una condanna, che, insieme ad altre realtà, Ya Basta ha deciso di intervenire “per evitare – continua Neva – che questo spazio, svuotato di tutti i suoi testimoni, diventasse un territorio in cui tutto poteva accadere, dove, ad esempio, si poteva affidare una pratica così delicata come quella del soccorso alla Guardia costiera libica, oppure a nessuno”.
Mediterranea, come è scritto nella presentazione del crowdfunding su produzionidalbasso.com, è un progetto di disobbedienza morale e di obbedienza civile: “L’idea di avere questa nave e di portarla in un territorio dove la verità di fatto è affondata – continua Neva – riguarda anche il diritto ad essere presenti dove Minniti e Salvini, praticamente con la stessa voce, ci dicono che ci sono già degli attori competenti e gli attori competenti sono gli stati e se non sono gli stati europei possono essere le peggiori dittature o le peggiori formazioni di pseudo governi. Riguarda la volontà di affermare che gruppi, coalizioni, organizzazioni di cittadine e cittadini possono rivendicare un interesse sulla gestione dei confini e delle aree di confine. Siamo soggetti competenti nel poter dire come va affrontato il tema delle persone che sono costrette ad attraversare il mare per mettere in salvo la loro vita.
Siamo convinti che non si dovrebbe migrare mettendo a repentaglio la propria vita e che quindi non dovrebbe essere necessario soccorrere le persone perché queste dovrebbero attraversare i confini in forma autorizzata, con i visti, con i canali di ingresso regolari, senza rischiare, senza spendere, senza indebitarsi. Eppure abbiamo scelto di fare qualcosa perché nessuno lo stava più facendo e in questo senso è anche importante affermare delle possibilità: è possibile fare quello che non dovrebbe essere fatto e che dovrebbero fare altri”.
A fare ciò che non si dovrebbe fare ci sono persone come Alice, salita sulla Mediterranea per la prima missione in mare. Quanto l’imbarcazione si è allontanata dalle acque italiane, andando nella zona di mare internazionale e quindi avvicinandosi a quella che viene definita zona Sar (Search and rescue) libica – zona in cui in realtà, da parte del governo libico più che di salvataggi è corretto parlare di respingimenti che hanno come metà le carceri libiche – Alice si è trovata davanti un vuoto di salvatori – perché le Ong sono state in tutti i modi allontanate – ma anche un vuoto di persone che necessitavano di essere salvate.
“Ci siamo chiesti – racconta – come era possibile che non ci fossero barconi, dove fosse finita la grande emergenza. L’Italia sta riuscendo ad allontanare i propri confini così che il problema non sia più “come creiamo un’accoglienza che sia effettivamente funzionale a chi viene qua e ha bisogno”.”
L’Italia sta rafforzando la Libia nascondendo le conseguenze delle proprie politiche: “non sappiamo quanti morti ci siano in mare, quante imbarcazioni siano affondate nella zona Sar libica, quante siano state riportate indietro, perché non avendo una reale comunicazione con questo stato che non si preoccupa di segnalare tutto quello che sta facendo, non possiamo avere idea di quanto stia succedendo nel mare mediterraneo”.
Le dinamiche di un salvataggio in mare sono coordinate dal MRCC (Maritime Rescue Coordination Centre) di ciascun paese che ha l’obbligo di inviare una segnalazione con la posizione esatta della barca in difficoltà alle navi che si trovano nella medesima area che, quindi, possono dirigersi in quella zona e portare soccorso. Nel corso della prima missione di Mediterranea sono stati diversi gli episodi che hanno dimostrato quanto la presenza dell’imbarcazione fosse fastidiosa.
“Ad esempio – continua Alice – ci sono state segnalate imbarcazioni in difficoltà con un ritardo tale da non consentirci di effettuare un salvataggio perché la barca in difficoltà era già stata respinta dalla Libia. E quando è successo che una barca superasse la zona Sar libica entrando in una zona di competenza maltese o italiana, la situazione si è fatta ancora più complicata, con un rimpallo di responsabilità tra Malta e Italia con alcuni buchi di informazione che sono durati anche 9 ore, durante le quali non era dato sapere che fine avesse fatto questa barca. Non ricevevamo informazioni semplicemente perché Malta stava aspettando che l’imbarcazione raggiungesse le acque di competenza italiane per poi lasciare completamente la responsabilità a un altro stato del salvataggio.
Questo ci permette di capire come la vita dell’uomo non sia assolutamente rispettata.
Se siamo arrivati al punto per il quale il nostro stato preferisce lasciar morire persone in mare piuttosto che avere “problemi” sul nostro territorio, penso che un’operazione come Mediterranea acquisti ancora più dignità e ancora più importanza. Che agisca in mare, che sia sulla bocca di tutti e che anche le persone sulla terra parlino dell’importanza che ha continuare a ribadire i diritti fondamentali che hanno queste persone!”
Questi sono gli effetti del memorandum tra l’Italia e la Libia, degli accordi con il Sudan, con il Niger e con l’Egitto, che respingono le persone.
Mediterranea sta compiendo un’importante azione di denuncia di questa situazione e sta prendendo parola cercando di ricordare a tutte e tutti quale sia la vita veramente degna di essere vissuta, una vita in cui si possono mettere in gioco i propri desideri, le proprie aspettative, i propri sogni.
Ma Mediterranea non è solo una nave che, sola, solca il mare del Mediterraneo centrale: è una piattaforma “che non ha un elemento principale ma che è formata da tante componenti, diversissime tra loro – ha spiegato Alice di Ya Basta Bologna – c’è la nostra associazione che opera tramite i centri sociali, c’è Sinistra Italiana, c’è l’Arci, ci sono altre realtà associative che hanno deciso di cooperare assieme per capire cosa potessero fare che avesse una grande risonanza sia per l’azione vera e concreta che viene fatta in mare ma anche e soprattutto per il lavoro che si fa a terra.
Mediterranea non è un’Ong. Coopera insieme ad Ong – come Sea-Watch o Open Arms, che ci hanno dato un grandissimo aiuto sia nel mettere insieme tutta l’operazione, sia nel capire come in meno di un mese riuscire a trasformare la nave che avevamo acquistato da rimorchiatore a imbarcazione che poteva effettuare un salvataggi (nessuno di noi aveva competenze in merito, l’unica mia competenza era quella di aver fatto una crociera in Corsica), sia nella parte più pratica della missione in mare: come effettuare un pattugliamento, come monitorare quello che in questo momento è il cimitero a cielo aperto più grande della nostra storia”.
È possibile sostenere il progetto Mediterranea Saving Humans lasciando il proprio contributo attraverso la piattaforma di crowdfunding produzionidalbasso.com, ma anche facendosi portatrici e portatori della grande ipocrisia che si sta consumando nel Mediterraneo dove, se ci non fossero gli occhi collettivi di questa esperienza, potrebbe spegnersi la luce.
Nel corso dell’incontro di venerdì 16 novembre si è fatto riferimento a due notizie che vi invitiamo a seguire:
Il blocco della nave cargo Nivin, che ha salvato oltre 70 migranti, a Misurata – qui l’articolo su Repubblica.it
La carovana di migranti che dal Sud America sta cercando di raggiungere gli Stati Uniti – qui l’articolo su Radio Onda d’Urto
Autrice
Giulia Gastaldo
ph. Mediterranea Saving Humans & Roberta Melchiorre