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Perchè #stopchemicalattacks fa più paura di Cambridge Analytica

Nella foto - Laboratorio Sociale Alessandria

Qualche anno fa si rovesciavano secchiate di ghiaccio sulla testa, oggi si coprono la bocca e il naso con la mano. Nel mezzo hanno sfoggiato sui loro profili bandiere di ogni angolo del mondo e affermato di essere, con un hashtag, molte persone. Tutto per nobili cause, sempre nel segno della solidarietà.
Sono l’altra faccia della medaglia, il lato b dello stesso noiosissimo disco. Sono il contrario degli haters, anche se nessuno ha ancora inventato un nome per i crociati delle giuste cause.
Potremmo definirli gli empathetic, coloro che empatizzano in modo patetico. La definizione di questo neologismo, basato sull’assonanza con l’italiano più che sulla traduzione letterale, calza a pennello e descrive con precisione chi “si mette nei panni degli altri” (cfr. def. di “empatizzare”) mostrando atteggiamenti o comportamenti “improntati a un sentimentalismo affettato o a un dolore artificiosamente o convenzionalmente inconsolabile” (cfr. def. di “patetico”).
C’è chi passa la sua vita virtuale a vomitare odio contro gli altri utenti e chi, invece, empatizza senza se e senza ma con le vittime di ogni ingiustizia, indossa i loro panni senza nemmeno immaginare cosa significhi vivere anche solo un’ora dentro quei vestiti.
Le campagne di solidarietà che viaggiano sui social sono una reazione veloce ed immediata alla violenza, al terrore e al dolore che, in determinati momenti, irrompono nella nostra quotidianità. Quando accade ci sentiamo in dovere di aderire, prendere posizione, di distinguerci da chi rimane indifferente. Il cervello manda gli impulsi, ma è il cuore che comanda. E allora una foto, un #JeSuisSomeoneRandom o uno #StopSomething e #SaveEveryone. A quel punto possiamo tirare un sospiro di sollievo, sicuri che la nostra cerchia di amici sa da che parte stiamo e che presto il nostro messaggio cavalcherà l’onda della viralità.
Insomma, i Social Network funzionano così: istantaneità, slogan, finzione, hype, narcisismo. Il problema non è tanto questo, quanto esserne coscienti per evitare le conseguenze che questa pratica provoca una volta che abbiamo staccato la spina. Cioè, Facebook ci ha chiesto di reagire e noi lo abbiamo fatto, ma cosa è successo prima e cosa faremo dopo? Spesso, nulla.
Le notizie, quelle sconvolgenti e terribili, ci arrivano all’improvviso, ma ciò che le provoca non accade da un momento all’altro, succede ogni giorno sotto i nostri occhi, senza fare troppo rumore e ciò che scriviamo o condividiamo su Facebook non servirà mai a fare in modo che cambi. Esattamente quanto sarebbe inutile andare al lavoro o a fare la spesa avvolti nella bandiera della Palestina o della Siria. Ma questo lo sappiamo bene e quindi non lo facciamo.
Occhio, dunque, a non cadere nell’inganno della rete perchè la regola è sempre la stessa: “se non sei parte della soluzione, sei parte del problema”.  E il problema sta proprio nel pensare che un gesto virtuale possa sortire effetti reali, usare Facebook per assopire o sostituire del tutto la propria partecipazione attiva.
 

Nella foto - Laboratorio Sociale AlessandriaCoprirci il naso e la bocca con la mano per esprimere la nostra contrarietà all’uso di armi chimiche contro la popolazione siriana non ci rende più consapevoli, come sostiene Roberto Saviano, ma più sciocchi. L’autore di Gomorra non è nuovo a queste uscite “empatetiche” in cui, in sostanza, abdica al suo ruolo, rinunciando ad informare, analizzare, fornire chiavi di lettura per farsi megafono di un sentimentalismo effimero.
E’ partita da lui la campagna #stopchemicalattacks che in questi giorni ci ha mostrato i volti sofferenti di diversi utenti e personaggi popolari che hanno a loro volta chiesto di aderire al “gesto simbolico”. Ecco, al gesto simbolico, che non va demonizzato di per sè, deve corrispondere un’azione. La più utile su Facebook è seguire i profili e le pagine, spesso oggetto di blocchi e censure da parte del social network, che condividono informazioni di prima mano e verificate, direttamente dai luoghi che sono teatro delle guerre e delle violenze (sulla situazione in Siria, per esempio, aggiornamenti quotidiani da Davide Grasso, Jacopo Bindi e sulla neonata pagina Si Amo Afrin)
Per il resto, possiamo cercare di restare umani e di conservare gelosamente quel senso di disagio e inadeguatezza che ci perseguita quando sentiamo di “non fare abbastanza”. Possiamo essere orgogliosi del dubbio che ci impone di confrontarci e discutere con gli altri, dell’insofferenza che, a volte, ci spinge in prima linea. Abbiamo lasciato che Mark Zuckerberg facesse dei nostri dati e gusti personali merce di scambio con Cambridge Analytica per scopi pubblicitari e propagandistici, non permettiamo che la sua creatura divori il nostro bisogno di essere parte di una comunità vera.

Autrice

Lucia Tolve