
Mi piacerebbe essere una cronista sportiva e riuscire con le parole ad interpretare l’entusiasmo che ho percepito in queste settimane negli appassionati di ciclismo. Mi piacerebbe essere una cronista sportiva e sapervi raccontare con abilità e pathos le imprese di Chris Froome, di Dumoulin e di Lopez e i chilometri macinati dai corridori nelle 20 tappe del Giro d’Italia.
Io, però, non sono una cronista sportiva e di questa corsa, purtroppo, anche tra molti anni ricorderò solo la partenza, la prima fuori dall’Europa. Il Giro d’Italia partito da Gerusalemme offrendo ad Israele la possibilità di ripulire la sua immagine pubblica ospitando uno degli eventi sportivi più amati. Il Giro d’Italia che con la retorica dello sport che unisce i popoli ha accettato di inaugurare la Corsa nella “capitale dello stato israeliano”, eliminando dalla mappa Gerusalemme est. Il Giro d’Italia passato alla storia per aver cancellato la storia. Quella di 70 anni di resistenza del popolo palestinese, di 70 anni di soprusi e negazione dei diritti umani.
Non sono una cronista sportiva e con il mio articolo sulla Corsa Rosa arrivo per ultima.
Non è mica facile arrivare ultimi, quando tutto è già stato detto. Bisogna saper spegnere la luce e chiudere la porta con delicatezza perchè l’agonismo, l’adrenalina e le vittorie hanno già scritto le pagine più belle di questa edizione del Giro.
Ma abito nella terra dei Campionissimi, ho imparato ad andare in bicicletta sulle strade di Fausto e Serse Coppi, non posso certo tirarmi indietro di fronte a questa sfida.
Abito nella città natale di un eroe dello sport a due ruote e di un anti-eroe che sul suo arrivare ultimo aveva costruito fama e fortuna. E tra i due io scelgo, guarda caso, quest’ultimo.
Luigi Malabrocca, nato a Tortona nel 1920, è protagonista assoluto di due edizioni del Giro, nel 1946 e nel 1947, pur perdendole entrambe. Come tutti gli altri ciclisti dell’epoca, con astuzia e tenacia Malabrocca corre dritto verso l’obiettivo, solo che il suo è arrivare ultimo. Per riuscirci si inventa ogni sorta di stratagemma, dalla foratura delle gomme agli incidenti meccanici da lui stesso causati. Si nasconde in un pozzo o tra le fronde lungo la strada, si ferma al bar ma sa anche qual è il momento di accelerare per non sforare il tempo massimo ed essere quindi escluso.
Nel 1946 e nel 1947 Luigi Malabrocca indossa la maglia nera e lo fa con orgoglio, perchè ha capito che non gli conviene stare nella scia di Coppi e Bartali. Se non può essere il primo, preferisce essere l’ultimo.
E nel secondo dopoguerra, in Italia, questo la gente lo capisce molto bene. Tra le persone comuni non c’è nessuno che sale sul podio, tutti però cercano di compiere la loro quotidiana impresa di sopravvivenza. E’ per questo che incoraggiano Luigi, gli regalano vini e salami, gli offrono piccole somme di denaro raccolte tramite colletta.
Luigi è un ragazzo e alla gloria preferisce i soldi e i regali. “Oggi – dice Matteo Caccia, lo speaker di Radio2 che gli ha dedicato uno spettacolo teatrale – potremmo definirlo un genio del marketing. Aveva capito che in quel momento storico l’ultimo poteva piacere alla gente. Quello della maglia nera era un escamotage per portare a casa soldi, ma è stato anche un corridore serio che amava mostrare le coppe e i gagliardetti delle gare vinte.”
E di occasioni per dimostrare di essere un corridore di talento Luigi Malabrocca ne ha avute tante negli anni a venire. “Non era un nostalgico – ricorda Matteo Caccia che, dopo aver scoperto la sua storia grazie al libro “Coppi, Bartali, Carollo e Malabrocca” di Benito Mazzi, lo ha incontrato e intervistato nella sua cascina a Garlasco per costruire lo spettacolo – Amava ancora il ciclismo, anche quello di oggi e mi ha detto che la vera differenza tra il ciclismo dell’epoca e quello contemporaneo erano le strade, tutte lisce e in ordine oggi, sterrate e rattoppate nel dopoguerra.”
Nel ’46 la maglia rosa per il primo classificato esisteva già, quella nera, invece, l’hanno introdotta proprio quell’anno per premiare Luigi Malabrocca che ad ogni tappa aveva saputo conquistare il rispetto e l’affetto degli spettatori appostati ai bordi delle strade.
E’ vero, ogni storia ci dice qualcosa solo di chi l’ha vissuta e del mondo che in quel preciso momento aveva intorno. Quella di Malabrocca, la gloriosa maglia nera del ciclismo italiano, però “ci dice anche che c’è sempre un modo di portarsi a casa una vittoria – conclude Caccia – pure nella sconfitta.”
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